Pride Music, non chiamatele solo canzoni LGBTQ+

Quanto piace “Smalltown Boy“? Ultimamente mi sembra di sentirla ovunque: dal video di un ragazzino che gira velocemente su se stesso all’ultima ADS  sui social, proprio stamattina, di qualche lussuoso brand di accademici modaioli che presentavano una collezione dedicata all’Africa. Il flusso di pensiero si fa più grande ed in un attimo mi trovo a pensare a tutte quelle canzoni usate da creator più o meno influenti. 

Spesso mi chiedo se ne conoscano l’origine, chi le ha cantate, o è solo frutto di un ultimo trend. Come quando vedo qualcuno indossare la maglietta dei Nirvana ma non sanno neanche chi era Kurt Cobain. Perché?

Ecco, mi fa lo stesso effetto quando sento utilizzare certi brani con superficialità, soprattutto quelli che hanno un profondo significato: generazionale, culturale, situazionale. 

Sapevi che proprio Smalltown Boy parla di un ragazzo che scappa di casa per vivere liberamente la propria omosessualità? E credi ancora che la Dancing Queen degli ABBA sia una giovane etero reginetta del ballo? 

Se sei arrivatə qui, forse, avevi bisogno di questo articolo.

Canzoni LGBTQ+, prima il perché

Spoiler: la mia non è una playlist con appiccicata l’etichetta “canzoni LGBTQ+” e lungi da me dal voler creare un articolo già visto e riproposto. Quello che mi interessa condividere è farti capire in che modo il movimento è stato ispirato e supportato accompagnato dalla musica, i generi e gli artisti delle varie scene; come’è cambiato il modo di parlarne e raccontarlo attraverso anni di censure, emarginazione, e doppi sensi sfuggiti ai bigotti.

Canzoni LGBTQ+: tra marketing e censura

Negli anni sono stati tantissimi gli artisti emarginati o i brani dimenticati, censurati, vietati, solo per il fatto che chi li cantava fosse omosessuale o semplicemente supportava la comunità LGBTQ+. E negli anni abbiamo anche assistito ad un plot-twist tremendo per il quale, se una volta era considerato “pericoloso” per le finalità delle vendite e dell’immagine dell’artista, oggi vediamo l’utilizzo e lo sfruttamento della tematica per un Rainbow washing artistico cicciato fuori come i funghi. Io, non faccio nomi, ma tu sei liberissimə di scriverli nei commenti!

un gruppo di fan di Lady Gaga

L'evoluzione della comunicazione nelle canzoni LGBTQ+

Un primo impatto è stato segnato dalla disco-music negli anni ’70 e che tutt’ora e sempre presente . Anche se i brani non erano (e non potevano) essere espliciti, artiste come Donna Summer, Diana Ross, Baccara, diventano icone da seguire, ascoltare, re-interpretare tra le luci psichedeliche delle discoteche di New York, dove lontani da occhi giudicanti, si è liberi di essere chi si vuole

Gli anni ‘80

Per la comunità LGBTQ+, gli anni ’80 sono stati un’epoca di visibilità crescente ma anche di sfide, in particolare con la crisi in ascesa dell‘ HIV/AIDS, dove “I Will Survive” di Glorya Gaynor ne diventa inno e speranza. In questo decennio, icone pop come Madonna o Prince hanno influenzato e scosso profondamente l’opinione pubblica, mostrando un nuovo modo di parlare di sessualità, proporla e portare alla luce un mondo che continuava ad essere ignorato da una società etero, razzista e patriarcale. Basti pensare alla gogna vissuta da George Michael dopo lo scandalo dei bagni.

Gli anni ‘90 e la House Music

Negli anni ’90, la house music si fa forma d’arte vibrante e inclusiva, diventando il fulcro della scena musicale underground. Brani come “Deep in Vogue” di Malcom Mc Laren o Vogue di Madonna (madrina indiscussa e punto di riferimento mondiale), fanno conoscere la cultura delle ball room al mondo. Aumenta la possibilità di esprimersi senza reprimersi. Tra tutti, l’ascesa di RuPaul segna un punto di svolta nel mondo discografico.

La Drag Queen Ru Paul

Dai ‘00 ad oggi

Dagli anni 2000 ad oggi, la produzione di canzoni LGBTQ+ è stata protagonista di una grande evoluzione e diversificazione.

Per la comunità LGBTQ+, questo è stato un periodo di liberazione, segnato da un’ importante sensibilizzazione al tema e alla visibilità. Pochi sono gli artisti che nascondono ancora il loro orientamento, altri lo portano orgogliosamente nelle orecchie di tutti con i loro testi, consapevoli di dover rappresentare coloro che non appartengono al “binario”. Brani come “It takes a fool to remain sane” di The Ark dei primi ‘00,  passando per i Gossip e Sam Smith e la meravigliosa “Take Me to Church” di Hozier hanno affrontato direttamente le questioni LGBTQ+, contribuendo a una maggiore consapevolezza e inclusività. “Born This Way” di Mother Monster Lady Gaga diventa l’inno assoluto della comunità queer.

frame del video Born This Way Lady Gaga

E in italia?

In una nazione profondamente timorata, cattolica e antica come la nostra – e le ragioni per confermarlo ancora oggi ci sono, senza stare qui a spiegare  – il discorso è spinoso, tanto da “infastidire” certi personaggi, ahimè pure noti.

Sfidare l’opinione pubblica e l’Italia perbenista e tradizionalista, negli anni è stato difficile e pericoloso. 

Un caso in particolare quello di Umberto Bindi, nel Sanremo del ‘61,  emarginato dalla scena e dimenticato perché il suo orientamento sessuale, confermato da un anello che indossava al dito, pesava più della bellezza della canzone “Il nostro concerto’” presentata al festival.

Dagli scherni a Renato Zero alle voci sull’ ambiguità sessuale di Amanda Lear, passando per “Andrea” di De André fino a “Sulla Porta” di Federico Salvatore, che perde il 3° posto solo per aver osato dire la parola omosessuale, censurata nelle prime due sere. Per non parlare di Alexander Platz (cantata nell’81 da Milva con le modifiche dell’immenso Battiato) che nasce come Valery, in onore di Valérie Taccarelli, figura di spicco del movimento di liberazione omosessuale italiano e che ovviamente ebbe un successo di nicchia e marginale. Anni e anni di canzoni che raccontano amori (perché alla fine di questo si tratta) e artisti lasciati a morire in povertà e c’è ancora chi si indigna della sfrontatezza di Achille Lauro o Rosa Chemical che mostrano la loro libertà queer o ai complottasti delle lobby gay, ovviamente con Paola e Chiara come madrine. 

Da dimenticare invece i tentativi trash e macchiettistici, risultati di un marketing becero tra Povia con “Luca era Gay” e “Il Mio Amico” della Tatangelo.

We’re on the right track

Se parli di qualcosa, la porti all’attenzione di chi ti ascolta o prendi a cuore un tema in realtà fai molto di più: lo rendi visibile, esistente. Per tutti le volte che la comunità LGBTQ+ rappresentava “una minaccia”,  ne è stata nascosta o sminuita la cultura o stigmatizzato lo stile di vita, giustificando i drammi come “meritati”,  è un grande segno di speranza e civiltà contare su chi si schiera ancora con la lotta e con i diritti umani, servendosi del mezzo più forte del mondo: l’arte.

E l’arte, come la musica, non ha sesso, non ha genere o etichette.

Don’t be a drag, just be a queen.

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Netflix ha alimentato quest’ambiguità attraverso il marketing. Ad esempio, ai fini promozionali della serie, ha utilizzato frasi del tipo “la storia di opposti che si attraggono di cui avevamo bisogno”.

Tutto ciò ha contribuito ad attrarre il pubblico LGBTQ+ senza offrire una reale rappresentazione della comunità. Questo ha portato ad una polemica tra i fan che hanno visto questa come una strategia di marketing, piuttosto che una genuina inclusivit

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