venere degli stracci, Michelangelo pistoletto

🛍️Fast fashion victim: chi paga davvero i vestiti di Shein?

Il modo più semplice per capire il fenomeno del fast fashion è quello di pensarlo come l’evoluzione della moda, nell’era di internet. Il mondo dei social ha influenzato profondamente le nostre abitudini di vita e ne ha risentito anche il modo di acquistare capi di abbigliamento.

Le aziende capofila dell’affermazione del fast fashion sono la cinese Shein e la neonata americana Temu (il cui lancio è avvenuto durante l’ultimo SuperBowl). In meno di trent’anni, nel mondo della moda, si è passati dal produrre 2 collezioni all’anno (primavera/estate e autunno/inverno) a 52, con costi sempre più competitivi per il cliente e una vasta scelta nell’offerta.

Questo ci suggerisce che le dinamiche con cui usiamo i social (sovraesposizione e velocizzazione nella fruizione dei contenuti, bassa soglia di attenzione) sono le stesse che utilizziamo per acquistare abiti e accessori: li vogliamo subito, vogliamo che arrivino in fretta e che costino poco, così da modificare costantemente il nostro look, alla rincorsa di quello che ci suggerisce l’ultimo hashtag in tendenza.

Moltiplichiamo questo fenomeno, alla stregua dell’usa e getta, per tutti gli utenti di Shein e Temu e ci accorgeremo che il fenomeno del fast fashion porta con sé conseguenze piuttosto negative.

Il loro business model intercetta soprattutto la Gen Z, attiva soprattutto su Tiktok: giovani e giovanissimi che non acquistano in negozi fisici, non hanno molti soldi da spendere (la media di un capo di Shein si aggira attorno ai 7€) e si accontentano di capi di bassa qualità.

Il core business delle aziende di abbigliamento è produrre costantemente nuovi capi, intercettando, attraverso gli algoritmi, le nuove tendenze, prima ancora di altri colossi del fast fashion, quali Primark, H&M e Zara. Grande attenzione è data soprattutto ai micro trend: il che significa che se una popstar indossava una certa gonna o un accessorio iconico ad un suo concerto, entro breve lo si troverà anche online, ad un prezzo irrisorio.

Sembra tutto così facile: compriamo in fretta, facciamo resi o decidiamo di tenere un acquisto, anche se non ci convince molto: al massimo abbiamo buttato una manciata di euro.

Ma chi paga davvero i vestiti prodotti dalle industrie del fast fashion? Il costo è soprattutto sociale e ambientale:

  • Si impiega una mano d’opera sfruttata e non tutelata dei paesi in via di sviluppo;
  • Non vengono rispettate politiche di tutela ambientale (l’industria della moda è responsabile per il 10% dell’emissione totale dei gas serra);
  • Si utilizzano materiali di scarsa qualitĂ  e sostanze nocive (es. nichel, formaldeide, microplastiche) di difficile smaltimento;
  • L’invenduto delle aziende è mandato nei paesi del terzo mondo, ingrossando le discariche a cielo aperto.
Discarica Fast Fashion in Ghana

Shein, a seguito di polemiche sulla propria policy ha cercato di attuare una strategia di influencer marketing e greenwashing, (👉🏻 clicca qui per leggere il nostro sull’Influencer Marketing) per sostenere la bontĂ  del proprio lavoro. L’azienda ha infatti invitato, a giugno 2023, alcune influencer americane a visitare le proprie fabbriche, affinchĂ© testimoniassero il rispetto di condizioni di lavoro sostenibili e delle norme di tutela ambientale.

L’operazione di Pr non è stata in grado, però, di mettere a tacere i dati di reportage e inchieste, che invece testimoniano situazioni lavorative critiche (turni di 18 ore, una giornata di ferie al mese, stipendi pari a 500€) e la strategia di influencer marketing è stata tacciata di propaganda e mistificazione proprio su TikTok, il social più presidiato da Shein, tramite hashtag di protesta (#boicottshein).

L’ultimo dato da trattenere è che i più avvezzi al fast fashion sono soprattutto gli esponenti della Gen Z: gli stessi che si battono a fianco di Greta Thunberg nei Fridays for Future; attivisti che hanno a cuore la sensibilizzazione delle tematiche ambientali, stessa definizione che si affibbiano anche alcune delle influencer coinvolte nel viaggio promosso da Shein. Il tutto sembra piuttosto contradditorio. Voi cosa ne pensate? E soprattutto, quali possono essere valide alternative per limitare l’uso di Shein e Temu?

Vinted, o altre app, il cui core business è la second hand, rappresentano una valida alternativa? Discutiamone nei commenti.  

 

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